Search English (United States)  Italiano (Italia) Deutsch (Deutschland)  Español (España) Čeština (Česká Republika)
Thursday, April 25, 2024 ..:: Archivio » Francis Bacon a Milano ::.. Register  Login

FRANCIS BACON A MILANO

Fig. 3Francis Bacon è crudo, lucido, brutale nella sua rappresentazione della vita. Nelle sue opere esprime l’emozione e la drammaticità dell’esistenza, sua personale, ma, soprattutto, collettiva dell’uomo del XX secolo. Bacon non può lasciarci indifferenti perché ci colpisce direttamente, anche se non lo capiamo, anche se la prima reazione è lo stupore di fronte alla deformità dei soggetti, alle incongruenze prospettiche, ai colori non naturalistici.
La straordinaria lucidità intellettuale ha fatto di questo pittore anche, e soprattutto, un filosofo con un pensiero critico di grande portata sulla condizione dell’uomo contemporaneo, avvicinabile a Sartre, Beckett, Camus, Eliot. Per questa ragione un allestimento essenziale, che metta non solo al centro dell’attenzione le opere, ma che le accompagni anche con alcuni stralci del suo pensiero e con un montaggio delle sue interviste, ci può aiutare a comprenderlo. E’ questa l’impostazione della mostra promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e da Skira Editore, prodotta da Palazzo Reale e Skira, in collaborazione con Arthemisia. Essa anticipa quelle che si svolgeranno nel 2009, centenario della nascita dell’artista, alla Tate, al Prado e al Metropolitan Museum. Si propone come un’antologica, con materiale per lo più inedito in Italia e con un catalogo tanto approfondito e tanto ben curato da rappresentare una monografia aggiornata sull’opera di Bacon.
Il percorso parte dai primissimi dipinti degli anni Trenta e copre i cinquant’anni e più di lavoro dell’artista. Si apre con una sala completamente dedicata al suo studio di Dublino: “Lo studio dell’artista non è lo studio dell’alchimista in cerca della pietra filosofale - qualcosa che non esiste nel nostro mondo - piuttosto, somiglia forse al laboratorio del chimico, il che non induce a smettere di immaginare che possa verificarsi un fenomeno improvviso; anzi, è decisamente il contrario, in realtà” (M. Archimbaud, Francis Bacon: In Conversation with Michel Archimbaud).

Lo studio di Bacon era il suo caos, quello in cui meglio si ritrovava e che gli permetteva di lavorare, di ispirarsi, di studiare la vita, isolato dal mondo. Era un luogo di sospensione dalla realtà e, metafisicamente, “una condizione di arrivo imminente che fa apparire dal caos un ordine pittorico” (Bacon). Infatti, le opere di Bacon hanno un ordine estremamente ricercato, frutto di schizzi e studi accurati; niente è lasciato al caso, non le strane prospettive, non i grumi di colore, non le porzioni di tela a vista. L’urgenza espressiva di Bacon è mediata, certamente, da un intelletto preciso, dalla volontà primaria di comunicare qualcosa oltre le sue provocazioni, il bere, il gioco, i suoi eccessi passionali e la sua eccentricità.
Nell’ambito del secondo dopoguerra, quando la maggior parte degli artisti decide di cancellare l’uomo, di rivolgersi alla rappresentazione astratta, che sia essa Action Painting o Informale Materico, Bacon si muove controcorrente e ne fa il centro della sua riflessione. Ci mostra un uomo lacerato, disperato, urlante e prigioniero, ma vivo. La parte centrale della sua carriera è dedicata alla rappresentazione di individui consumati dalla vita, alienati dalla solitudine e, per questo, isolati al centro della tela, rinchiusi in teche di vetro o in gabbie, situati in posizione di rilievo su strutture assimilabili a piedistalli.
In questi dipinti “riconosciamo una società urbana chiusa su se stessa, quella delle persone che prendono il metrò, che vediamo osservarsi di nascosto, che si trovano rinchiuse in una cabina telefonica, che stanno sul divano dello psicanalista o giacciono nel proprio letto di nevrosi, e che salvano le apparenze dietro un sorriso isterico”.
In questo periodo egli predilige ritrarre uomini d’affari in abiti eleganti e ... papi. Notissimo il suo ritratto di papa Innocenzo X, ripreso da quello di Velazquez, tentativo di reinterpretare il capolavoro in un modo valido e reale per il XX secolo. In seguito la sua ricerca è sempre più influenzata dalle sequenze fotografiche di Eadweard Muybridge e dalle immagini foto-cinematografiche in generale.Fig. 4 Da qui il suo lavoro prende nuovo avvio, con approcci più articolati. I colori si schiariscono e aumentano, forse, il loro ruolo destabilizzante, lo spazio è quello claustrofobico di stanze asettiche, prive di atmosfera domestica e caratterizzate solo da alcuni oggetti (lavandini, lampadine, interruttori, sedute, etc.), che non hanno, però, funzione d’arredo, ma di semplice relazione col soggetto. Come all’interno dello studio dell’artista, anche qui il mondo è tagliato fuori, è annullata ogni relazione con esso e ciò obbliga alla riflessione, catalizza le emozioni.

Molti sono anche i ritratti, soprattutto degli amici. Da Lucian Freud, ai compagni di vita George Dyer e John Edwards. Spesso di dimensioni ridotte e realizzati sotto forma di trittico, in primissimo piano, mirano ad una descrizione dell’individuo che rifugga l’illustrazione. Si occupano dell’involucro dell’uomo come espressione della sua anima. Bacon ama gli schizzi e gli esperimenti, in un interrogarsi assillante che si esplicita nella ripetizione dello stesso soggetto anche nello stesso dipinto, anche nello stesso volto. “La più grande avventura è veder nascere qualcosa di sconosciuto ogni giorno nello stesso volto”, diceva. E non è forse davvero la più grande emozione, ciò che dà energia ai nostri giorni, ciò che ci spinge al rapporto con gli altri anche quando questo è difficile e porta sofferenze?

Le fasi più produttive dei suoi ritratti sono correlate alla morte dei suoi compagni e ciò non è un caso: la fonte del ritratto è il culto dei morti e nel ritratto l’uomo ha sempre cercato la sopravvivenza alla morte fisica.

Bacon, insomma, non fa sconti, non ci protegge e non si protegge, ci mette davanti all’uomo nuovo, l’uomo nudo di fronte al mostruoso malessere del tempo. Calarci nella sua opera è una sorta di catarsi: siamo noi quell’uomo, siamo noi quelli che nella brutalità cercano ancora la bellezza convulsa della vita. “La più grande arte ti riporta sempre alla vulnerabilità dell’esistenza umana”.
Da vedere.

Di Giulia Rosetti
9 marzo 2008
Dal sito web http://www.foglidarte.com

Copyright (c) 2000-2006   Terms Of Use  Privacy Statement
DotNetNuke® is copyright 2002-2024 by DotNetNuke Corporation